sabato 12 maggio 2012

Dolce come il cioccolato - Laura Esquivel

   Devo ammettere che quando ho iniziato a leggere questo libro ero piuttosto scettica. Non mi piaceva molto e credevo che lo avrei presto abbandonato perché troppo triste. Per circostanze di forza maggiore mi sono ritrovata da sola con lui in un viaggio in treno da quasi un’ora… Mi sono letta quasi tre capitoli e da quel momento in poi una delle mie maggiori preoccupazioni nella giornata è stata quella di trovare qualche minuto per andare avanti a leggere, dato che questa è stata una settimana impegnativa. Nonostante questo mi ci sono voluti pochi giorni per finirlo e quando l’ho terminato ero davvero contenta.



La trama

   Siamo nel Messico del 1910, in piena Rivoluzione, e seguiamo le sorti della famiglia De La Garza e dei suoi servitori, ma soprattutto di Tita, la minore di tre sorelle.
   La famiglia De La Garza è capeggiata dalla severissima Mamma Elena, capace di spaccare perfettamente un’anguria solo facendo delle incisioni sulla buccia – e già questo dovrebbe darci un’idea di che tipo di donna è questa –, che ha tre figlie: Rosaura, Gertrudis e Tita.
   L’usanza in famiglia è che la figlia minore si occupi della madre fino alla sua morte, per cui quando un ragazzo di nome Pedro Muzquiz, innamorato di Tita e profondamente ricambiato, chiede la sua mano, questa gli viene rifiutata. Mamma Elena gli propone tuttavia di sposare un’altra sorella: Rosaura. Pedro accetta il compromesso solo per poter rimanere vicino a Tita e vengono così celebrate le nozze. Disastrose nozze, poiché nel preparare la torta del matrimonio aiutata da Nacha, la cuoca che ha insegnato a Tita i segreti della cucina, la ragazza piange nell’impasto della torta e questo provoca una strana intossicazione: gli invitati, nel mangiarla, non possono fare a meno di ricordare il loro amore perduto, e allora un’immensa tristezza s’impadronisce di loro. Il matrimonio culmina in una vomitata collettiva (descritta con talmente tanta audacia e maestria che non fa nemmeno schifo leggerla) perché quello è l'unico modo per smettere di piangere.
   Pedro e Rosaura abitano alla fattoria dei De La Garza e Rosaura ha un figlio da Pedro. Tuttavia l’amore che prova per Tita aleggia nell’aria come i fumi della cucina, di cui Tita è diventata la responsabile dopo la morte della cuoca Nacha. Nei suoi piatti Tita trasferisce il desiderio che sente per Pedro, e in una di queste ricette (quaglie ai petali di rosa) si crea un’alchimia con la quale i ragazzi comunicano, per la quale «Tita era l’emittente, Pedro il destinatario e Gertrudis la fortunata nella quale si creava, grazie al cibo, la sintesi di questo singolare rapporto sessuale.» Per placare questa passione Gertrudis corre a fare la doccia, ma le gocce d’acqua evaporano prima di raggiungere la sua pelle. Il suo aroma di rose si espande così violentemente e velocemente che, a molta distanza, il rivoluzionario Juan sente questo irresistibile aroma, abbandona la battaglia, corre a cavallo fino alla fattoria dei De La Garza e, al suo arrivo, trova Gertrudis che gli corre incontro, ancora nuda, mentre fugge dall’incendio che il suo corpo troppo caldo ha causato nelle docce. Juan la fa salire in sella e i due si allontanano al galoppo presi da passione incontrollabile.
   Data l’attrazione palpabile fra Tita e Pedro, Mamma Elena decide che Rosaura e il marito si trasferiranno altrove. Poche settimane dopo la loro partenza giunge un terribile messaggio: il figlio di Rosaura, il nipote a cui Tita si era tanto affezionata e che aveva allattato al posto di sua sorella con del latte che era scaturito come per magia dal suo seno, è morto. Mama Elena non si scompone alla notizia, al contrario rimane fredda come sempre, e allora tutto il risentimento che Tita prova nei suoi confronti esplode, e la ragazza la accusa di essere la colpevole della morte del nipote e fugge nella piccionaia.
   Giorni dopo Tita è come impazzita: non si è mossa dalla piccionaia, non vuole scendere, si rifiuta di parlare. Un dottore nordamericano amico di famiglia, che ha sempre avuto un debole per Tita, il dottor John Brown, va a prendere la ragazza e la porta in casa sua. Lentamente Tita si ristabilisce e, alla notizia che i rivoluzionari hanno razziato la fattoria e reso la madre paraplegica con un colpo alla schiena, decide di tornare a prendersi cura di lei con l’aiuto del dottor Brown, al quale nel frattempo si è affezionata. Nonostante le cure Mama Elena muore pochi mesi dopo e Rosaura, che ha ereditato la fattoria, e Pedro tornano in paese.
   Ricomincia la convivenza di più relazioni e gelosie: John Brown ha chiesto la mano di Tita e lei ha accettato, così Pedro è geloso per lei e Rosaura, che ha avuto un'altra figlia, è gelosa per le attenzioni del marito verso la sorella.
   Poco prima delle nozze Pedro sorprende Tita nella camera scura dove Mamma Elena era solita fare il bagno e i due finalmente fanno l’amore. Dopodiché Tita non se la sente di sposare John Brown e annulla le nozze.
   Passano gli anni e la figlia di Rosaura, Esperanza, cresce e diventa una ragazza intelligente e bella, e si salva dallo stesso destino di Tita di accudire la madre fino alla morte, perché Rosaura muore a seguito di dolori che l’affliggevano da tempo.
   Dopo il matrimonio di Esperanza la fattoria è svuotata: rimangono solo Pedro e Tita. I due fanno l’amore per l’ultima volta nella camera buia e il loro piacere e il loro amore sono tali da «accendere tutti i fiammiferi che portiamo dentro di noi», come una volta il dottor Brown aveva detto a Tita, così che i due raggiungendo il piacere perdono l’anima in quell’estasi e l’intera fattoria viene scossa dai loro corpi che iniziano a scintillare e brillare, come fuochi d’artificio.


Lo stile

   Probabilmente più che la storia in sé è stato lo stile del libro a conquistarmi. Uno stile che definirei tipicamente sudamericano, ma diverso da qualsiasi altro autore sudamericano che io abbia mai letto. Non schietto e in qualche modo semplice come Gabriel Garcìa Marquez, non naturalmente magico come Isabel Allende.
   Definirei questo libro come un sogno: si sviluppa in mezzo alla nebbia calda e umida degli odori della cucina di Tita, e come in un sogno sembra che ogni cosa abbia contorni sfocati. Gli accadimenti magici che avvengono grazie alle sue ricette sono ben accetti anche se esagerati e davvero assurdi, perché la sensazione è proprio quella di essere in un momento magico dove tutto può succedere. Non mi disturba il fatto che ci siano degli spiriti, o che delle lacrime in una torta facciano ricordare l’amore perduto, o ancora che alcuni fatti siano inspiegabili, perché questo è parte del fascino del libro.
   Il modo di pensare e di prendere la vita della scrittrice traspare in queste righe, e ancora devo dire che è un modo che ho ritrovato in tutti i romanzi di autori sudamericani. Forse è per questo che mi ci ritrovo così bene, è un atteggiamento che un popolo intero condivide e che a me è stato passato in parte dai miei genitori (pur mescolato alle tradizioni italiane ed europee). Questo atteggiamento è qualcosa che condivido, anche se non so come spiegarlo a parole. Se avete letto un qualsiasi romanzo di un autore sudamericano potete capirmi: è quella sensazione di vivere in un mondo dove tutto è naturale e semplice, dove i grandi avvenimenti che sconvolgono il nostro mondo hanno, paradossalmente, meno importanza dei piccoli dettagli e delle storie personali che ognuno si porta dietro.


I personaggi

   Non so chi sia il vero protagonista di questa storia, se la cucina o l’amore. È la prima volta che mi viene da considerare protagonista qualcosa come l’amore o la cucina e non un personaggio nel senso classico del termine. Il fatto è che nel romanzo la cucina dipende dall’amore e l’amore dalla cucina, ed è grazie a questi due elementi che la storia va avanti, più che grazie ai personaggi.
   Per di più, come al solito (non è una novità) la mia Intolleranza ai Protagonisti mi ha fatto destare un po’ Tita e verso la fine anche Pedro. Invece ho adorato Mamma Elena, la serva Chencha e la sorella maggiore Gertrudis.
   Tita, a mio parere, è fin troppo buona. Il fatto che anche dopo tutto quello che Mamma Elena e Rosaura le hanno fatto lei ancora le aiuti e provi pena per loro è assurdo! La rende uno di quei personaggi forzatamente buoni, una di quelle persone perfette che non provano rabbia contro gli altri e sono invece inclini a perdonare e porgere l’altra guancia. Non che persone del genere non esistano (anche se io personalmente non ne ho mai conosciuta nessuna) ma nei libri i personaggi troppo perfetti mi danno fastidio.
   Inoltre mi ha infastidito il rapporto fra Tita e Rosaura, o meglio, l’atteggiamento che Tita ha con Rosaura e la descrizione del carattere di quest’ultima. Tutti i pregi sono andati a Tita e tutti i difetti a Rosaura, tanto che la sorella maggiore è quella grassa, brutta e cattiva che fa le puzze e ha l’alitosi. Mi sembra un modo davvero esagerato e infantile per rendere un personaggio negativo, e questa sensazione di infantilità viene amplificata dal comportamento di Tita, che le rinfaccia le cose come se fosse un bambina di otto anni.

Tita mentre litiga con Rosaura

   A parte questo la prostituta/soldatessa Gertrudis figlia segreta del Mulatto mi ha conquistata, e anche la pettegola e dolce Chencha.
   La mia preferita fra tutte queste donne, comunque, rimane la più cattiva: Mamma Elena. Perché non si può non rispettare una donna che sa tagliare l’anguria a fette precise solo incidendo la buccia! A parte questo fondamentale punto, Mamma Elena è uno dei personaggi con più sfaccettature che ci sono nella storia. Suppongo che questo sia uno dei punti a favore dei personaggi che sembrano così rigidi e inquadrati: all’improvviso viene mostrato un lato di loro che nessuno conosceva, ed è giusto così, perché nessuno ha una sola sfaccettatura! Per di più Mamma Elena è una madre, e tutte le madri hanno dei segreti, per cui quando scopriamo il suo ognuno di noi - madri o figli - può ben calarsi nella parte di Elena o di Tita. La storia di Mamma Elena e del Mulatto è una delle mie preferite, seguita subito dopo da quella di Gertrudis e del soldato Juan.


In conclusione…

   “Dolce come il cioccolato” (titolo originale “Come l’acqua per il cioccolato”, non so proprio perché l’hanno cambiato!) è uno di quei romanzi da leggere una sola volta nella vita, perché future riletture rovinerebbero il libro.
   Dalle riletture ci aspettiamo molto, siamo davvero pretenziosi: vogliamo che un libro ci emozioni come la prima volta, ma questo non è possibile perché sappiamo come andrà a finire e non c’è più la sorpresa! Non sarà mai come la prima volta!
   “Dolce come il cioccolato” è uno di quei libri che non voglio rovinare con delle riletture, che ci fanno vedere il tutto sotto un luce diversa, la luce della ragione e non quella della passione. Lo voglio conservare nella memoria assieme a tutti i sentimenti che mi ha fatto provare alla prima volta, senza che venga “annacquato” da ragionamenti a posteriori.
   In fondo così accade con la cucina: nessuno potrà mai cucinare nello stesso identico modo le Quaglie ai Petali di Rosa, il Brodo di Coda di Bue o i Peperoni in Salsa di Noci, per cui è meglio gustarli con la maggior attenzione possibile e conservarne il ricordo fino a che non finiamo la nostra scatola di fiammiferi.

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