venerdì 28 novembre 2014

Che paese, l'America - Frank McCourt

   Qualcuno ricorda con quanta poetica convinzione e gioia avevo recensito “Le ceneri di Angela”? Be’, ora scordatevela.
   Dire che sono rimasta delusa da questo libro è un eufemismo, e dire che non mi è piaciuto non sarebbe del tutto corretto. Che ci rimane quindi, a parte le recensione, per rimuginare meglio sul perché e il percome non consiglierei questo libro a nessuno? Soprattutto a chi ha letto la prima parte.
 
   Frank McCourt arriva a New York a diciannove anni, forte di un passato che lo ha temprato e desideroso di un futuro migliore. Sbarca in un universo del quale capisce poco, se ne sta ai margini assieme a tutti gli altri immigrati di vario genere ma sogna il proletariato.
   Dapprima invisibile ragazzo delle pulizie nella hall di un grande albergo di lusso, Frank fa la sua brava leva nell’esercito degli Stati Uniti e, quando torna a casa, ricomincia a lavorare e poi si iscrive all’Università – grazie più che altro alla sua simpatia, perché il diploma non ce l’ha. Si laurea e comincia a insegnare. Sposa una bella ragazza, ha una bella figlia, e riunisce tutta la sua famiglia – o quasi – nel continente americano.
   Sembra idilliaco, e in effetti lo è da un certo punto di vista. Frank McCourt non si ritroverà mai più a raccogliere carbone per strada per accendere il fuoco, né a patire la fame o agognare una fetta di pane fritto. Ma allora, come mai questo libro mi è così odioso?
   Come in ogni cosa, anche qui c’è il rovescio della medaglia.
 
   McCourt passa gran parte della sua infanzia, e quindi tutto “Le ceneri di Angela”, a risentirsi con il padre che si beveva lo stipendio e li aveva abbandonati a Limerick a sopravvivere con la carità. Ma non appena sbarca a New York e prende un po’ di confidenza con la città, le ragazze e lo stipendio, ecco che corre nei peggiori bar di Caracas per fare esattamente la stessa cosa.
   Traspare una sorta di invidia per i ricchi americani che lui giudica fortunati, poiché non hanno patito tutto ciò che ha dovuto patire lui in Irlanda. Frank vorrebbe essere come loro ma, quando si ritrova in mezzo a quella gente, la scopre distante e incomprensibile.
   Nella vita adulta poi, nonostante i desideri di essere un buon marito e un padre presente, diventa sì un padre affettuoso ma un marito insofferente. A questo punto non è chiaro se i coniugi McCourt si siano separati o meno, resta comunque il fatto che la vita privata dell’autore non è poi così piacevole.
 
   Se non altro non gli si può rimproverare di non essere stato onesto.
   Non sarebbe corretto da parte mia giudicare la vita, le scelte e gli errori di un altro. Qualcuno che per di più non conosco e con cui non ho nulla a che vedere. Non discuto su come Frank McCourt ha mandato avanti la sua esistenza, perché quelli sono affari suoi. Dico solo che poteva anche evitare di scrivere quest’altro libro!
   “Le ceneri di Angela” lasciava una bella sensazione. Il lettore, consapevole del fatto che si trattava di una storia vera, poteva riflettere su come, nella vita, le cose possono sempre migliorare e, con un mix di sangue freddo, impegno e fortuna, anche l’impresa che sembra più difficile può essere realizzata. Se c’è una vita da cui trarre un insegnato, era quella di Frank McCourt.
   Salvo poi per il secondo libro.
   “Che paese, l’America” riesce a mostrare, nonostante i desideri realizzati e una vita che va solo in meglio, come si può essere sprezzanti delle cose ottenute e non averne mai abbastanza. Ritengo che da leccare il giornale del fish and chips a comprare casa a New York ci sia un grosso salto di qualità. Sebbene McCourt abbia fatto questo gran bel salto, e come lui i fratelli, non sembra essere felice di ciò che ha ottenuto. 
   Qui sta la pecca del libro, perché se visto da un’ottica differente, McCourt ha vissuto quello che qualcuno potrebbe definire ‘Il sogno americano’. Lui lo ha vissuto, ma nel suo libro ha saputo mettere l’accento solo sulle brutture della vita adulta, accompagnato dallo stesso stile secco e onesto che tanto bene si era adattato ad illuminare i piaceri dell’infanzia.
 
   Tanto per essere chiari, leggete “Le ceneri di Angela”. Poi chiudete il libro e dimenticate che ne esiste il seguito.

lunedì 24 novembre 2014

Topolino contro il mondo

   Al supermercato, in fila alla cassa.
   BIMBO, sventolando l’ultimo numero di “Topolino”: Mamma, possiamo prendere questo?
   MAMMA, con aria altera e ricercata: Ma certo, la cultura non ha prezzo!
   BIMBO: Perché? È gratis?
 
   Non è una scenetta, giuro, è accaduto davvero.
   Ora, a parte che i bambini mi fanno sbellicare appena aprono bocca, ma sono qui per puntare la luce su quel che ha detto la madre.
 
   Diciamo che considerare “Topolino” cultura non è il massimo. Capisco che il bimbo era piccolo, ma piuttosto un bel libro per l’infanzia, di quelli con una storia avvincente, un eroe senza macchia e una bella morale.
   Credo che la causa di questo sia da ricercare nel fatto non siamo un popolo di gran lettori. In Europa, almeno stando alle statistiche, l’Italia è il paese che legge di meno. Con questa carenza di libri nelle case, è ovvio che poi uno si emozioni quando compra “Topolino”.
   Ciò di cui volevo parlare comunque è questo: ma se leggere è così importante, si può leggere qualsiasi cosa?
 
   Proviamo a vedere la cosa da un punto di vista diverso di quello di una lettrice compulsiva. Proviamo un punto di vista nuovo: il lettore neofita.
   Leggere è importante. Su questo non ci piove. Ce lo insegnano a scuola, ce lo dicono tutti, quindi sarà così. A questo punto della nostra riflessione, dobbiamo distinguere due correnti di pensiero verso le quali il nostro lettore neofita si può lanciare: quella del “Ne deve valer la pena” e quella del “Tutto fa brodo”.
   I lettori “Ne deve valer la pena” pensano che, se si deve proprio leggere, allora tanto vale che sia qualcosa veramente importante. Un bel classico, meglio ancora un trattato o un libro di filosofia, ma alla fine anche un romanzo che denunci qualcosa – va bene qualsiasi cosa, basta che ci sia la denuncia, manco fossimo dai Carabinieri. Insomma, meglio leggere cose importanti e impegnate piuttosto che leggere romanzetti rosa, no? Sembra che questo tipo di lettore veda il leggere come un dovere più che come un piacere, e di conseguenza legge solo libri impegnativi, che rendano onore alla parola ‘dovere’ e siano il più possibile immuni al ‘piacere’.
   Al contrario, i lettori “Tutto fa brodo” sono dell’opinione che, pur di leggere, vada bene qualsiasi lettura. L’importante è leggere, gli hanno detto, quindi Dostoevskij o una lista della spesa, che differenza fa?
   Per parte mia gli estremismi non mi sono mai piaciuti. Ai primi dico che per forza la gente non legge se la prima cosa che gli date in mano è un mattone come “Guerra e pace”, ai secondi che forse forse la lista della spesa non è proprio una pubblicazione e “Topolino” viene generalmente considerato fumetto più che libro.
 
   Penso che la verità stia nel mezzo, così come per molte altre cose.
   Indubbiamente credo che leggere sia importante, e non solo perché è utile per non smettere mai di imparare o altre cose buoniste e da cattedra del genere. Secondo me è importante perché chi legge ha sempre la possibilità di aprire un libro, alla fine di una giornata che vorrebbe dimenticare, e immergervisi dentro scordando tutte le cose che sono andate storte. E a questo punto che sia un romanzo, un trattato di algebra o un racconto di tre pagine poco importa.
   Quindi, senza esagerare, posso dire di essere anch’io un’estimatrice di “Topolino”.
   Se in un libro, di qualsiasi genere, una persona trova conforto, allora deve leggerlo. Che importa poi se è “Cinquanta sfumature” o “La divina commedia”?

giovedì 20 novembre 2014

Ingannevole è il cuore più di ogni cosa - J. T. Leroy

   Sono passati parecchi anni da quando ho letto questo libro ma poco tempo fa ho avuto modo di riprenderlo fra le mani. Non ricordo nemmeno da dove lo presi, ma di certo non lo comprai io perché di sicuro avrei attirato le domande scomode di mia madre, un po’ come quando leggevo “Noi, i ragazzi della zoo di Berlino”, lei mi guardava con gli occhi tondi e cercava di psicanalizzarmi, ottenendo reazioni del genere:
 
   Autobiografia dello stesso Leroy, la vicenda racconta della sua infanzia assieme alla madre, una prostituta tossicodipendente, Sarah.
   A cinque anni Jeremiah viene portato via alla famiglia adottiva e la sua custodia torna alla madre naturale, che appena pochi mesi dopo averlo riavuto lo carica in macchina e comincia con lui una vita da vagabondi, fra alcol, droga e i diversi fidanzati della donna.
   Il rapporto che hanno Sarah e Jeremiah è sin dall’inizio conflittuale. Il bambino vorrebbe tornare dai genitori adottivi, quindi Sarah per impedirgli di fare capricci gli racconta bugie crudeli, ad esempio che i suoi genitori adottivi non gli vogliono bene perché è un bimbo cattivo, oppure che se non fa il bravo la polizia andrà a prenderlo per portarlo in prigione.
   Jeremiah viene più volte picchiato dai compagni della donna senza che lei muova un dito – e anzi, incitandoli a “dargli una bella lezione” – e, quando si ritrova da solo con l’ex marito di lei, viene violentato.
   Una volta sottoposto a cure mediche e psichiatriche il bambino viene mandato dai nonni, fondamentalisti cristiani che gli fanno studiare la bibbia e, se non la studia bene, lo picchiano. Rimane assieme a loro per qualche anno, finché Sarah non torna a riprenderselo. Ricomincia la vita di droga e prostituzione per la donna, maltrattamenti fisici e psicologici per il protagonista.
   Il libro si chiude quando Jeremiah è ormai adolescente ed ancora assieme alla madre. Dati i continui maltrattamenti ha sviluppato delle tendenze omosessuali e sadomasochistiche.
 
   Tristi e preoccupati per il povero Jeremiah “Terminator” Leroy? Ma tranquilli, non dovete! Perché è tutta una farsa.
   Se qualcuno ha già sentito parlare di questo libro forse lo sapeva. Quando l’ho letto mi aveva colpito molto perché pensavo a questo povero bambino sballottato fra una violenza e l’altra, e avevo quasi preso la faccenda a cuore! Poi, la scoperta: J. T. Leroy non esiste, è un invenzione della scrittrice Laura Albert.
   Ma vaff…! Si può dire? Io dico che si può.
 
   A quanto pare Laura Albert stava cercando di vendere il suo manoscritto “Sarah”, primo pubblicato dal fantomatico J. T. Leroy, ma credeva che essendo lei una sottospecie di desperate housewife nessuno l’avrebbe presa sul serio se avesse presentato romanzi di quel genere. Quindi si inventò un soprannome, Terminator, e un nome Jeremiah Leory, per dare più pathos e interesse ai suoi libri.
   Quando lo scoprii ci rimasi malissimo.
 
   Ora che rispolvero questa cosa non riesco a fare una recensione più lunga. Avrei voluto parlare del libro in maniera più approfondita perché in fin dei conti non posso dire che non mi fosse piaciuto. Stile diretto, crudo, di sicuro non per stomaci delicati, ma tutto sommato un libro che fa riflettere (a questo punto poco importa che sia vero o no, la sostanza c’è). Ma, giuro, non ce la faccio, mi dà troppo fastidio!
   Commenti? Io ne ho solo uno:

venerdì 14 novembre 2014

Indigestione di libri

   Avete presente quando c’è una cosa che ci piace tantissimo e un giorno capita che ne mangiamo a chili? Prendiamo ad esempio la Nutella. Ci ingozziamo fino a star male e quando poi riemergiamo dal nostro coma ciboso giuriamo che per un bel po’ di tempo non ne toccheremo nemmeno un cucchiaino.
   Passano i giorni, le settimane e poi magari anche i mesi. Finalmente, vinto il ricordo del malore, ci compriamo un bel barattolone di quelli da 600 grammi e le fette di pane preferite, magari quelle sottili e senza crosticina, per assaporare appieno il gusto cremoso della nocciola.
   È giunto il momento, ce l’abbiamo davanti, è lì, e la prima cosa che sentiamo quando svitiamo il tappo è il profumo intenso che aleggia nell’aria e ci penetra nelle narici. A questo punto ci blocchiamo.
   Oh mamma.
   Forse abbiamo le traveggole o forse abbiamo mangiato pesante la sera prima. Ma in fondo siamo stati bene fino ad ora, che sarà mai una fettina di pane con una sottilissima spalmata di Nutella? Prepariamo il nostro sandwich e lo addentiamo.
   Il sapore ci colpisce le papille gustative come un pugno ma – incredibile! – ne siamo disgustati. Per un po’ annaspiamo nel panico, chiedendoci che cosa c’è che non va. Alla fine, dopo molte ipotesi, la verità viene a galla. Non ci piace.
   Non ci piace più.
Questa sono io quando vado in un all-you-can-eat.
Se sostituite i libri al cibo otterrete più o meno questa stessa reazione.
   Un incipit particolarmente lungo quest’oggi ma, che vi devo dire? Scrivo così come mi viene, io. Comunque tutto ciò ha un senso, non crediate, perché oggi parlo di indigestione di libri. Non so se capita spesso o se è capitato solo a me (spero di no, mi sentirei strana altrimenti), ma ho fatto indigestione di fantasy.
   La ritengo una cosa piuttosto strana, soprattutto considerando il fatto che io sono una di quelle persone che quando si fissa con qualcosa ne parla un sacco e cerca di carpire tutti i segreti del film/telefilm/attore/libro di turno. Quindi da quando ho fatto indigestione di fantasy, cosa che sarà avvenuta cinque o sei anni fa, sono lì che mi chiedo come sia possibile. Insomma, ho passato anni a rileggere libri, riguardare film, cercare foto di attori o musicisti su internet, e tutto d’un tratto i libri fantasy mi diventano indigesti!
   Precisiamo una cosa. Non tutti i libri fantasy, solo quelli più classici. Quelli ambientati in luoghi simil-medievali, dove ci sono i cavalieri, i draghi, i maghi e magari qualche creature inventata dall’autore giusto per metterci qualcosa di suo. Ecco, quelli sono i fantasy che non sopporto più.
   Una cosa che vale solo per i libri poi, perché ad esempio adoro il telefilm di “Trono di spade” e credo che sia geniale! Ma il libro… Ci ho provato a leggerlo. Già a pagina quindici mi sono arresa.
   Ho letto un sacco di libri di questo tipo in passato, e mi sono piaciuti moltissimo. Tutt’oggi sono fra i miei libri preferiti e li ricorderò sempre con ammmore, ma credo di averne letti troppi. Questa è l’unica spiegazione che riesco a darmi.
   Ho fatto indigestione.
   Indigestione di fantasy.
E' con questo atteggiamento che leggevo i fantasy, prima.
   È capitato anche a qualcun altro o sono io l’unica fortunata colpita da questo virus, da questa maledizione?!

mercoledì 12 novembre 2014

Roba da bambini

   Non saprei dire da quando ho la passione – mania – per la lettura. Direi da sempre, da quando ho imparato a leggere all’età di cinque anni, con il librone di “Hercules” della Disney, che lanciavo dall’altra parte della stanza quando non riuscivo a capire una frase. Mia madre era contenta di comprarmi libri (non ugualmente felice di vedermi scagliarli contro il muro, ma è una fase che con sua somma allegria ho superato presto), perché diceva che così avrei passato meno tempo davanti alla televisione.
   Da bambina i miei genitori mi spingevano a fare quello che più mi piaceva e, sebbene fossero confortati del fatto che mi piacesse leggere, non era per loro una priorità che io diventassi una divoratrice di libri. Anzi, quando fui più grande erano sinceramente preoccupati del dispendio di denaro e di spazio che i miei libri causavano.
   Rimane il fatto che leggo sin da quando ero piccola e ci sono dei libri che sono stati molto importanti per me, ai quali guarderò sempre come i libri della mia infanzia.
 
   Dopo aver letto il sopracitato “Hercules”, che non ho mai tenuto in considerazione perché era più immagini che parole, il primo ‘libro vero’ che ho mai letto è stato “Matilda”, di Roald Dahl. Ero molto fiera di averlo letto, perché era un libro come quelli che leggevano i grandi. Sì c’erano le figure, è vero, ma c’erano anche un sacco di pagine senza nemmeno una figurina piccina picciò, e poi i disegni non erano nemmeno a colori, che diamine!
   Credo che “Matilda” mi piacque tanto perché era uno di quei personaggi in cui mi potevo immedesimare, ma allo stesso tempo aveva delle caratteristiche per cui volevo assomigliarle. Tanto per cominciare anche io ero una femmina, e non sia mai che a cinque anni preferissi un libro con un protagonista maschio perché «che schifo i maschi!»
 
 
   A parte questo io e Matilda ci assomigliavano parecchio perché leggevamo tutte e due un sacco, ma avere anche dei poteri e combattere presidi malvagie non mi sarebbe dispiaciuto neanche un po’.
   Pian piano si insinuò in me l’idea che leggendo tanti libri come Matilda, anche io avrei vissuto avventure straordinarie come lei. Magari è per questo che ancora non smetto di leggere: sto ancora aspettando di venire catapultata in un universo parallelo mentre faccio la mia sessione di jogging, o di venire rapita dagli alieni durante la pausa pranzo, di incontrare eccentrici personaggi quando faccio la spesa o, semplicemente, delle creature sovrannaturali nascoste fra colleghi e amici. Cose così, no? Prima o poi mi capiterà, lo so!
   A proposito di Matilda, vi informo, se non lo sapete, che esiste un fantastico musical scritto da Tim Minchin. Chiaramente non arriverà mai qui in Italia (se ci hanno messo cinque anni a portare “Gli studenti di storia” di Alan Bennet che è una normale pièce teatrale, non vedo come potrebbero adattare delle canzoni in maniera soddisfacente e in tempi rapidi), per cui ho già deciso che per la mia prossima visita a Londra una tappa al musical di Matilda è d’obbligo. Intanto vi lascio con una delle canzoni che mi piacciono di più: “When I grow up”.
 
 
   Un altro libro che è stato importante per me è “Il mago di Oz”, di Frank L. Baum. Le mie maestre me lo regalarono in quinta elementare dopo l’esame. Ne regalarono uno diverso a tutti quanti, e a me toccò quello. Purtroppo lo avevo già letto perché mi era stato regalato da qualcun altro, ma non ne feci parola con loro ovviamente.
   Ancora oggi ho quel libro e quando una volta mi è capitato di fare una scernita dei libri che volevo tenere per fare spazio fra i miei scaffali (i poveri scartati sono finiti in biblioteca, ma gli scaffali sono stati felici perché si stavano piegando per il peso!) ho scelto di tenere quello delle mie maestre.
   Una delle cose belle dei libri è che non solo regalano la loro storia in sé, ma possono anche portare ricordi su un periodo o un episodio della nostra vita.
 
 
   Pietra miliare delle mie letture di bambina è “Harry Potter e la Camera dei Segreti”. Apposta non cito tutta la saga perché il secondo volume è stato il primo che ho letto, seguito poi dal primo e infine dal terzo, dopo il quale sono andata in ordine. Una delle mie zie non sapeva che fosse il secondo di una serie, sapeva solo che in molti ne parlavano, così decise di regalarmelo.
   La cosa buffa è che all’inizio lo odiavo, faticavo davvero a leggerlo! Nel primo capitolo c’era questo ragazzino che veniva maltrattato dai suoi zii, e venivano nominate cose a me incomprensibili, come Hogwarts, Piton («Che cosa cavolo è un Piton?!», mi chiedevo indignata) e Cappelli Parlanti. A invogliarmi a leggere fu mio papà, che evidentemente non voleva sprecare così l’opportunità per tenermi per un po’ impegnata con un bel libro. Mi bastò resistere fino all’apparizione dei fratelli Weasley su una macchina volante, dopodiché fui totalmente convinta della validità di Harry Potter. Come resistere, d’altronde, ai Weasley?
   Con Harry Potter mi sono affezionata per la prima volta ad una storia e ai suoi personaggi.
   L’unica cosa non così poetica che mi ha lasciato è una frase che è diventata un detto di famiglia. Ogni volta che da piccola qualcosa non mi piaceva – dai libri, al cibo, alle persone – mio papà mi convinceva almeno a provare a farmeli piacere, prendendo come esempio il fatto che prima odiavo Harry e poi l’ho amato, e diceva sempre: «Ricordati di Harry Potter!» E me lo ha ripetuto talmente tante volte che ora tutti in famiglia conoscono questa frase.
   Ogni tanto la dice ancora…
 
 
   Per qualche motivo che non ricordo, quando andavo ancora alle elementari entrai in possesso di “Strega come me”, di Giusi Quarenghi. Non mi ispirava per niente e di fatto lasciai lì il libro a prendere polvere sul comodino (o meglio dietro il comodino, sotto il comodino, come tassello per non far traballare il comodino!) per parecchio tempo.
   Un giorno mi colpì la terribile maledizione del lettore, che ogni tanto capita al lettore distratto, o troppo impegnato, o a quello che è ancora economicamente dipendente dai genitori, come ero io all’epoca: ero rimasta senza niente da leggere. Fui colta prima dalla noia, poi dalla disperazione, infine dalla rassegnazione. Sarei stata costretta a giocare con le Barbie per un sacco di tempo, cavolo! Infine, i miei occhi caddero sul volumetto che stava, appunto, sotto al comodino e, in mancanza di altro, con un’alzata di spalle iniziai a leggerlo.
   Nemmeno dieci pagine e già mi domandavo se anche io avrei potuto frequentare un collegio per streghe. Ricordo che risposi al questionario che c’era in mezzo al libro, che riguardava i requisiti per entrare a far parte del collegio, ma con mio grande scorno scoprii di non averne nemmeno uno. Il disappunto durò poco comunque, perché il libro era troppo bello per perdere tempo a pensare che, uffa!, non ero una strega.
   “Strega come me” è stato il primo libro che mi ha sinceramente stupita, e da allora ho imparato a dare una chance ai libri che mi finiscono fra le mani praticamente per caso. C’è sempre la possibilità che diventino alcuni dei miei libri preferiti.
   Da allora, il mio comodino traballa.
 
 
   Durante le vacanze di Natale, un anno, andai a trovare dei parenti in campagna e, dato che sapevo che d’inverno non c’era molto da fare lì (nessuna possibilità di correre su e giù per le colline, né di mangiucchiare l’uva dalle viti o di fare a gara a chi lanciava le mele cadute dall’albero più lontano, insomma, una vera noia!), portai con me un libro.
   Fu una saggia decisione. Intanto, perché non c’era davvero molto da fare. E poi perché “Gelsomino nel paese dei bugiardi”, di Gianni Rodari, divenne subito uno dei miei libri preferiti.
   Oltre alle illustrazioni, che erano bellissime, aveva dei personaggi davvero incredibili di cui ora purtroppo mi sfugge il nome. So bene che c’era un gatto fatto di grafite che inneggiava alla rivoluzione scrivendo slogan contro il re lungo le strade, e che il re in questione altri non era che un pirata calvo che indossava bellissime parrucche.
   La cosa che mi piaceva di più del libro era che nel paese dei bugiardi tutti dovevano parlare e comportarsi al contrario. Se volevi il pane dovevi andare dal cartolaio e se volevi della carta dal panettiere. I somari venivano premiati e gli studenti diligenti puniti, e per fare un complimento si doveva dire: «Hai una bella faccia da schiaffi!»
   Questo è un libro che consiglio a tutti i bambini.

 
   Direi che ho finito con i libri della mia infanzia. Sicuramente ce ne sono molti altri che ora non mi vengono in mente, ma direi che questi, se me li sono ricordata subito, sono di certo i più belli.

venerdì 7 novembre 2014

Gli incubi di Hazel - Leander Deeny

   Tempo fa, nel reparto per ragazzi della Feltrinelli della mia città, ho visto un libro che ha attirato su tutti i fronti la mia attenzione. Il bordo della pagine era nero, la copertina sembrava imbottita ed era morbida al tatto. Il disegno sulla copertina era carino, il titolo accattivante e la descrizione decisamente interessante. Non mi ci volle molto per decidermi, così lo comprai e fui di ritorno a casa con “Gli incubi di Hazel”, di Leander Deeny.
 
   Hazel è una bambina di dieci anni che viene costretta dai genitori a passare tre settimane di vacanza dalla sorella di sua madre, zia Eugenia Pequierde.
   Zia Eugenia è vedova e ha un figlio, Isambard, della stessa età di Hazel. Vivono entrambi in un enorme maniero fatiscente assieme ad una noiosa servitù. La zia si rivela subito antipatica e noiosa. Continua a parlare del marito, morto in un incidente, e non fa che paragonare Hazel a Isambard, che a detta sua è un bambino educato e intelligente, tanto che conduce moltissimi esperimenti.
   Hazel scopre che nel bosco vicino al castello vivono degli strani mostri che dicono di essere gli incubi della zia Eugenia. Ognuno di loro è formato da due animali diversi e sono: Geoff il gorillopardo, Francis lo struzzorana e Noel il pitospino. Passano il tempo a cercare di spaventare zia Eugenia, ma non sanno come fare, così Hazel si offre di aiutarli, per vendicarsi dell’antipatia della zia.
   Ma chi ha creato gli incubi?, e perché costui, chiunque egli sia, vuole dare il tormento alla zia Eugenia? Hazel scoprirà le risposte dove meno se lo aspetta, nella cornice di un castello in rovina e circondata da misteri oscuri e personaggi bizzarri – cani Frankenstein, anatre che fumano, cameriere che sanno cucinare solo sugo di carne!
   La verità è la più incredibile di tutte…
 
 
   Sono rimasta ammaliata da questo libro sin dalle prime pagine. Potrebbe trarre facilmente in inganno con la sua trama adatta ad un pubblico di bambini, ma avendo già letto il finale vi sconsiglio vivamente di farlo leggere a figli o nipotini.
   Lo stile è molto scorrevole e divertente e, anche se la storia cardine non prende subito il via, dopo appena un paio di capitoli si continua a leggere giusto per scoprire quali bizzarrie ci saranno nelle prossime pagine.
   Oltre a questo i disegni all’inizio di ogni capitolo sono veramente belli, e già solo per quelli adoro “Gli incubi di Hazel”.
   L’ambientazione della storia è cupa, vagamente gotica, e anche la sensazione che ci viene trasmessa è quella di essere in un mondo sospeso, lontano e differente da quello al quale siamo abituati. Cupo diventa anche lo svolgersi dei fatti ad un certo punto del libro, e lì ci si rende conto che non si sta certo leggendo una favoletta per bambini.
 
   Questo è uno dei pochi libri che ho mai letto in cui ci sono personaggi che non vogliono piacere al lettore. Sono pittoreschi e fanno sorridere, ma hanno anche un lato oscuro e genuinamente cattivo. La cosa interessante e anche molto bella, a mio parere, è che alla fine i personaggi riescono bene o male a perdonarsi fra di loro, e a volersi bene comunque.
   Leander Deeny ha creato una storia popolata da persone (e mostri) reali. Diventa impossibile per il lettore elevarsi a giudice e scegliere il personaggio migliore, l’eroe positivo, perché non ne esiste nessuno. Tuttavia non si riesce nemmeno a trovare la volontà per condannarli, perché anche se hanno fatto cose malvage avevano le loro ragioni: rabbia, tristezza, amarezza. Tutte ragioni umane che possiamo comprendere e a volte ahimè anche condividere.
 
Leander Deeny, classe 1980,
esordisce nel 2008 con "Gli incubi di Hazel",
in lingua originale "Hazel's phantasmagoria".
 
   Non posso che concludere consigliando questo libro un po’ a tutti. Io non sono brava a consigliare libri, basta che mi piaccia per essere consigliato al mondo intero! “Gli incubi di Hazel” però ha un po’ della favola e del fantasy, un po’ della storia horror e del mistero, e giusto un pochino del romanzo di formazione.
   Magari funziona come jolly: va bene per tutti!

martedì 4 novembre 2014

Ti amo, libro!

   Questo post è indirizzato prima di tutto alle donzelle, ma solo per una questione di conoscenza mia personale. Qui parliamo di cotte, le cotte che ci prendiamo per i personaggi dei libri.
   L’unico motivo per cui non includo anche i maschi in questo rosabondo delirio, è che non conosco molti ragazzi che si sono presi delle cotte analoghe. Il mio fidanzato è innamorato di Stephen King – il che suona preoccupante – ma, anche se l’autore stesso si è inserito come personaggio nella serie della “Torre nera”, non mi pare il caso di prendere in esame questa cosa. L’unico commento che ho ricevuto da parte di un ragazzo ad un personaggio è stato da parte del mio collega quando gli ho prestato Eragon. Il suo verdetto finale è stato che Eragon «è per forza finocchio, perché altrimenti com’è possibile che in quattro libri non si schiaccia quella bella topa di Arya nemmeno una volta?»
   Alla luce di questi fatti ho deciso di lasciare perdere qui il punto di vista maschile, e dedicarmi solo a quello più romantico e a me congeniale di noi donzelle.
   Orbene, sono pronta a smascherare alcune delle mie cotte più famose, e a difenderle dagli attacchi di chi dice che è assurdo prendersi una cotta per qualcuno che non esiste.
 
   Ron Weasley – Harry Potter, di J. K. Rowling
   Ovviamente essendo Harry Potter uno dei primissimi libri a cui mi sono appassionata era logico che lì in mezzo ci fosse qualcuno per cui prendermi una cotta. Andavo sì e o alle medie, se non ancora in quinta elementare, quando il mio cuoricino di lettrice ha trovato il personaggio che più si adattava all’idea che avevo allora di ideale romantico: Ron Weasley!
   Ron Weasley era tutto ciò che a dieci anni potevo desiderare: timido, impacciato, divertente e con i capelli rossi. Non so dirvi perché, ma i capelli rossi mi stavano molto simpatici.
 
   Murtagh – Il Ciclio dell’eredità, di Cristopher Paolini
   A quindici anni i miei gusti erano un tantino cambiati e, anche se ho dovuto attendere fino ai venti per sapere come la storia finiva – e non è che mi abbia entusiasmata ammettiamolo –, della mia cotta sono sempre stata convinta.
   Personatemi fans di Eragon ma, a mio parere, il Cavaliere dei Draghi era un po’ una mezza tacca rispetto a Murtagh che, oltre ad avere dalla sua un passato lacrimevole e un’aura tenebrosa, aveva quello che ogni personaggio maschile di un libro deve avere per essere non solo affascinante, ma persino sexy: una cicatrice! E non una cicatrice piccola, intendo una vera cicatrice. Quella di Murtagh, in particolare, era sulla schiena – e cosa c’è di più sexy di una schiena? – e l’attraversava in diagonale per tutta la sua lunghezza. Poi, come nei libri sia possibile che le cicatrici siano affascinanti e non degli sfregi, per me rimarrà sempre un mistero. Rimane comunque il fatto che Murtagh, con o senza cicatrice, aveva fascino.
   Il personaggio di Murtagh era molto interessante perché era sempre diviso fra il bene che desiderava fare, e il male che era costretto a fare. Questo gli dava delle sfaccettature interessanti e in special modo nell’ultimo libro lo hanno reso sempre più reale. Paolini ha saputo dargli un carattere adeguato al suo passato e degli atteggiamenti che rispecchiano la sua personalità nel presente.
   Murtagh secondo me è il più vero dei personaggi della saga, e forse anche per questo è quello che mi piace di più.
 
   Alex – La città delle bestie, di Isabel Allende
   Il realismo magico degli scrittori sudamericani mi è sempre piaciuto, perché – per ovvi motivi – l’ho sempre compreso alla perfezione e condiviso, così come i personaggi tipici che questi autori fanno nascere, personaggi dalle caratteristiche bizzarre e improbabili ma, allo stesso tempo, estremamente umani.
   Isabel Allende nel suo romanzo per ragazzi “La città delle bestie” non utilizza questi personaggi sin troppo assurdi, tali da sembrare irreali. Al contrario il suo protagonista è un ragazzo come tanti, che si ritrova ad affrontare un’avventura straordinaria e, grazie alla sua sensibilità e alla sua intelligenza, comprende e accetta i nuovi mondi che va a scoprire, imparando qualcosa ad ogni viaggio.
   Forse è per questo che quando ho letto il libro mi sono presa una cotta terribile per Alex, il protagonista. Perché era talmente ordinario da sembrare reale e raggiungibile.
 
   Edward Cullen – Twilight, di Stephenie Meyer
   Volevo provare a nascondervelo, ma alla fine mi sono detta che non è giusto rinnegare il proprio passato e, anche se ad un’occhiata più attenta il sex symbol dei vampiri è decisamente un uomo straziante e sessista, per un po’ di tempo ho sognato che i vampiri esistessero sul serio!
   Non ho molto da dire su Edward, in quanto la cotta mi è passata – mentre gli altri avranno sempre un posticino nel mio cuore, e non li ho certo nominati tutti! – ma per il breve periodo in cui sono stata cotta di lui sono stata una sognatrice decisamente fra le nuvole, non c’è che dire.
 
   Dopo la parentesi fangirlosa mi ergo a difesa delle cotte letterarie!
   Quando si legge un libro che piace ci si immerge totalmente nella storia. I suoi intrighi e colpi di scena diventano la nostra preoccupazione mentre leggiamo, e i personaggi sono i nostri eroi, quelli che affrontano la sfida che tanto ci emoziona.
   Spesso portano con sé una personalità propria, ed è quella a conquistarci. Poco importa che sia inventata, il fatto che sia immaginaria non significa che sia meno reale, perché quello che conta è ciò che ci suscita e ci insegna, che non è certo una fantasia.
   Io credo che gli scrittori, quando inventano un buon personaggio, si rendono conto ad un certo punto che ha una personalità propria. Certo, loro l’hanno creata e la conoscono a menadito, ma sanno che i personaggi per rimanere fedeli a loro stessi potrebbero fare qualcosa che gli scrittori non avevano pianificato.
   Se un personaggio ci lascia qualcosa, esprimendo dei dubbi che credevamo solo nostri, gioendo in situazioni analoghe alla nostra e soffrendo per motivi per i quali abbiamo sofferto anche noi, allora mi sembra normale affezionarsi un po’ a questo personaggio.
   Se poi aggiungiamo che il tizio in questione è alto, tenebroso e maledettamente sexy, il gioco è fatto!
 
   Il pensiero comune è che prendersi una cotta per una persona che di fatto non esiste sia una cosa sciocca e inutile, e scommetto che in molti pensano che chi lo fa non ha un fidanzato/fidanzata e non ne troverà mai una/uno all’altezza degli standard di perfezione dei libri.
   Mi trovo a dissentire. Le persone fantasticano di continuo, e non per questo non è detto che non apprezzino e amino quel che hanno già. Anzi io penso che fantasticare faccia bene ogni tanto perché, quando abbiamo finito di pensare a quanto sarebbe bello stare nell’amazzonia fra le braccia di Alex, affrontiamo la giornata in maniera diversa. E alla fine, quando ad abbracciarci non è Alex ma qualcun altro, allora ci rendiamo conto che quello sì che è un abbraccio che scalda davvero, come il nostro abbraccio immaginario non potrà mai fare.
 
   Ah, maledizione! Questo doveva essere un post tranquillo e scanzonato, invece è andato a finire nella mia solita filosofia spicciola! Non riesco proprio a farci nulla: quando voglio scrivere qualcosa di serio finisco per fare un macello, quando invece voglio rimanere leggera finisco per filosofare.
   A parte questo, quali sono le vostre cotte letterarie e cosa ne pensate in generale?

sabato 1 novembre 2014

Serie vs. autoconclusivi

   Ho notato che, proprio per natura mia, le “cose a puntate” non mi fanno impazzire. O meglio, odio tutto ciò che la tira per le lunghe. Dopo un po’ se una serie tv, un libro o un fumetto non accennano a finire, io lo mollo.
   Vi basti pensare che l’unico telefilm che ho visto per intero è stato Ugly Betty, che dura solo quattro stagioni. Altri telefilm che mi sono piaciuti sono Dexter, in cui ogni serie può essere vista a sé, e Misfits, perché dura pochissimo – ammetto che complice è stato anche Robert Sheehan con il suo stupido personaggio!

Andiamo... come resistergli?
   Stessa cosa con gli anime, il che è un vero problema perché hanno questa brutta abitudine di durare anni, e anni... e… anni. Ho visto tutto Death Note, Soul Eater, GTO, Lovley Complex e Host Club. Ma non chiedetemi di guardare quelle cose che durano cinque o seicento puntate perché potrei decidere di mettere fine alle mie sofferenze molto prima.
 
   In quanto a libri, anche lì non vado molto lontano. Ho letto pochissime serie, sempre per lo stesso motivo.
   La più lunga, in quanto a numero di volumi, è Harry Potter. Ancora in lettura ho “Abarat”, che doveva essere una trilogia ma alla fine Clive Barker ha sadicamente deciso che vuole scrivere altri due libri, e manca ancora l’ultimo. Poi ci sono Paolini con “Il Ciclo dell’Eredità”, e la Mayer con “Twilight”, che ne contano quattro. Infine ricordo vagamente che lessi “Le cronache del mondo emerso” di Licia Troisi, ho letto (e adorato!) la saga “Millennium” di Larsson e sto ancora leggendo “Hunger games”. Tutte trilogie.
   Alla luce di questo credo che la trilogia sia il massimo cui posso aspirare, ora. Anzi ad essere del tutto sincera cerco di scansare libri che fanno parte di serie. Non che le serie siano in qualche modo peggio dei libri autoconclusivi, solo che io preferisco questi ultimi.
   Riconosco che ci sono in entrambi dei vantaggi e degli svantaggi.
 
   Può capitare di comprare un libro e, una volta tornato a casa, renderti conto che si tratta del secondo di una serie.
 
 
   Possiamo sempre crogiolarci nell’idea che ritroveremo il nostro personaggio preferito nel prossimo libro.
 
   L’autore di una serie può decidere ad un tratto di darsi all’ippicca, andare a vivere in un isola deserta o uccidere tutti i personaggi in una zombie apocalypse perché si è stufato. Lui ha il potere!
 
   Una volta finita una serie possiamo mettere tutti i libri sullo scaffale uno di fianco all’altro in bell’ordine e ammirarli amorevolmente come farebbe una madre con i suoi figli.
 
   Quando finiamo il volume di una serie saremo mentalmente instabili fino a che non avremo il prossimo fra le mani.
 
   Se vogliamo sapere come una serie va a finire dobbiamo spendere un bel po’ di danari.
 
   I lettori di serie sono costantemente minacciati dagli spoilers.


   Fatemi sapere un po’ che ne pensate. Preferite serie o autoconclusivi? Pensate che ci siano altri pro o contro per l’uno o per l’altro genere? Chiaramente io, da difensora degli autoconclusivi, ho trovato più contro nelle serie, ma sono parecchio curiosa di sapere se ci sono dei pro che non ho considerato. O se gli autoconclusivi hanno dei contro che mi sono sfuggiti.