giovedì 27 aprile 2017

La lega dei cattivi – Parte 2

Seconda puntata della Lega dei Cattivi! Ultima puntata, in realtà.
Avevo una mezza idea di fondare anche “La compagnia degli eroi”, ma mi trovo in difficoltà a sceglierli. Ho sempre avuto un debole per i cattivi dei libri, e invece ho sempre cordialmente detestato i buoni (così noiosi e prevedibili, con le loro intenzioni pure, puah!). Rimane il fatto che certamente lo farò, prima o poi, nulla mi toglierà il piacere di stilare l’ennesima lista, che sia di buoni o di cattivi, non importa. Non si preca mai l’occasione per fare una lista.
Be’ ciancio alle bande, ecco come termina l’accozzaglia di cattivi dei libri, che a confronto le Suicide squad impallidiscono e si ritirano in un angolo a piangere.

Gli invisibili
Ci sono alcuni cattivi che non vedi mai, sai solo che sono da evitare e sconfiggere. Penso che si tratti di personaggi molto complessi nonostante tutto, che hanno richiesto all’autore grandi capacità: non è da tutti non mostrare un personaggio e riuscire a far trasparire il suo carattere, le motivazioni, il modo in cui influisce sulla trama e gli altri personaggi. Il mio cattivo preferito in questo senso è Sauron.
Esiste tutta una storia riguardo Sauron nei libri precedenti “Il signore degli anelli”, che ci spiega le sue origini, come ha acquisito il suo potere e di che razza sia. Ci sono opinioni divergenti al riguardo perché alcuni pensano che sia di una razza a parte, io quando avevo letto “Il Silmarillion” avevo capito che Sauron fosse un elfo, traviato da un essere malvagio di cui ora non ricordo il nome e quindi diventato in seguito anch’egli malvagio.
Il punto però è che Sauron non si vede mai nel Signore degli Anelli, seppure il libro porti come titolo proprio uno dei nomi con cui la Terra di Mezzo si riferisce a lui. Si parla solo dell’esistenza dell’Occhio di Sauron, che tuttavia non ha un ruolo attivo nella storia. Chi si muove sono i suoi eserciti, i suoi sottoposti, e in realtà non lo si vede fino alla fine, quando viene sconfitto. Se ci pensiamo bene uno dei cattivi più grandi di sempre, fisicamente non esiste. Tuttavia la sua personalità, la sua mente, la sola idea del suo ritorno, è talmente potente da soggiogare popoli e menti, da muovere eserciti, da indurre personaggi a iniziare più di una battaglia.
Essendo “Il signore degli anelli” un fantasy classico mi piace anche che le motivazioni di Sauron siano chiare fin dal principio, e del tutto non contestabili. Vuole conquistare la Terra di mezzo, e che male c’è in questo? Non è un desiderio strano, anzi, è un’ottima ragione per formare un esercito. In fondo è quello che ha cercato di fare l’Impero Romano per moltissimi anni, e se l’espansione territoriale ha smosso eserciti di persone, non vedo perché non debba farlo con eserciti di orchi.
Non so se il suo fascino sia dovuto proprio al fatto che non compare mai, ma Sauron rimane uno dei migliori antagonisti di sempre.

I nemici di loro stessi
Esistono dei cattivi che si mettono da soli i bastoni fra le ruote, un po’ per il bene del romanzo e la sua riuscita, un po’ perché il creatore li ha fatti nascere scemotti. Mi vengono in mente ad esempio tutti i cattivi dei fumetti più classici, importanti quanto un protagonista ma che riescono sempre a fallire qualsiasi cosa facciano (vedi Joker e Willy il coyote).
Pensandola in questi termini c’è il libro più famoso di Oscar Wilde e, con lui, il protagonista pessimo per eccellenza: Dorian Gray. Un ragazzo che ha tutte le fortune, è ricco, è bello, affascinante, è benvoluto e ha sconfinate possibilità di fronte a sé. Ovviamente riesce a mandare tutto in pappa solo a causa della sua stupidità. Sì, ci sono temi più profondi da analizzare nel “Ritratto di Dorian Gray”, lo sappiamo, ma personalmente ho sempre creduto che il peggior nemico di Dorian fosse Dorian. Mi ha sempre infastidita il fatto che si rovinasse la vita da solo, una vita, poi, che prometteva bene. Adoro “Il ritratto di Dorian Gray”, adoro la storia, l’atmosfera, la vicenda, ma Dorian mi ha sempre fatta pensare alle persone che sprecano le loro opportunità.
Lui rimane un personaggio della Lega dei Cattivi un po’ discosto dagli altri, che lo bullizzano perché dicono che non è un vero cattivo, dato che è il protagonista del suo libro (viene difeso solo da Voldemort, che in segreto ha sempre voluto che il suo nome fosse nei titoli dei libri della Rowling, e un po’ lo invidia per questo).

I giustificati
In alcuni romanzi il cattivo viene analizzato molto bene, talmente tanto in effetti che il lettore si trova a parteggiare per lui. Pensi che in fondo non abbia tutti i torti, che con lui sono sempre stati malvagi e tutti gli altri si meritano la sofferenza che il cattivo ha loro da elargire.


La prima cattiva cui ho pensato, che è anche la protagonista, è la Carrie del primo romanzo Stephen King. Ragazzina plagiata dalla follia fondamentalista cristiana della madre, presa pesantemente in giro da tutti, scopre di avere poteri telecinetici. Cos’altro potrebbe accadere?! E poi, diciamocelo, la maggior parte di quelli che lei ammazza fra atroci dolori erano veramente stronzi, vedere che la pagano per tutto quello che hanno fatto sembra frutto di una giustizia divina che raramente esiste nella realtà. Quindi sì, io tifavo per Carrie e una parte di me voleva che lei trionfasse completamente e si rifacesse una vita altrove, combattendo contro il bullismo.
Ultimo cattivo, ma non per questo meno importante, è forse quello meno conosciuto, ma che non potevo esismermi dall’inserire. Per il mondo di Abarat: Cristopher Carrion! Brutto, malvagio, sembra uscito da un malatissimo film dell’orrore. Invece no, è uscito dalla malatissima mente di Clive Barker, l’uomo che ci ha regalato Hellraiser. Sebbene la storia di Carrion non abbia lo stesso impatto di quella di Carrie, lo giustifichiamo lo stesso perché il personaggio viene dotato di immensa sensibilità. Con l’andare avanti della narrazione conosciamo il suo passato, i suoi sentimenti, le motivazioni che lo spingono, che per una volta vanno oltre il semplice voler essere potente. Carrion combatte contro altri mali, per il suo male. Vuole veder trionfare le tenebre e per farlo deve combattere con tenebre più subdole, che si rivestono di luce. Insomma, se mai leggerete Abarat, e non smetterò mai di consigliarvelo, ve lo possono garantire: amerete Cristopher Carrion.

E con questa puntata è finita la Lega dei Cattivi. Mi è piaciuto scrivere questi post, perché mi ha dato l’opportunità di ripensare a romanzi cui, altrimenti, non avrei ripensato.
Se ci saranno aggiunte alla lega verrete senz’altro a saperlo. Un buon cattivo non si può mai ignorare!

martedì 18 aprile 2017

Passaparola #5

Oggi un post diverso dai soliti che ultimamente popolano il blog, un post di segnalazione. Era da un po’ che non ricevevo richieste di segnalazione e mi ha fatto piacere.
Avevo già visto il titolo in questione altrove, e avevo letto la sinossi perché sembrava interessante. Sperando che anche voi la pensiate come me, a voi il Passaparola di oggi.

Titolo: Ritratto di dama
Autore: Giorgia Penzo
Editore: CartaCanta 
Genere: narrativa romantica
Data di uscita: marzo 2017
Prezzo di copertina: € 13.00 (presto disponibile anche in ebook)
Pagine: 152
ISBN: brossura (9788896629970)

Il viaggio di due anime che si amano da sempre e che combattono per incontrarsi, una favola metropolitana dalle atmosfere parigine.
Notte di San Lorenzo. Seduta su una panchina di fronte a Notre Dame una ragazza sembra aspettare qualcuno. Guillaume, studente di Storia dell’arte, la nota da lontano. Incrocia il suo sguardo e ha un sussulto: è identica alla famosa Belle Ferronnière ritratta da Leonardo da Vinci. Con una immediata complicità, dal Point Zéro inizia la loro passeggiata attraverso la Ville Lumière. I due parlano di ciò di cui è fatta la vita: arte, fato, desideri, morte. Ma soprattutto d’amore. A un passo dall’alba, la ragazza svela a Guillaume il suo segreto…

lunedì 10 aprile 2017

Penna alla mano #2: scrivere scheletrico o grosso?

Mi è capitato di recente di leggere libri scritti con uno stile molto diverso, che pure hanno avuto grande successo di pubblico (uno di questi ha vinto il Pulitzer, quindi ho detto tutto). Si tratta di romanzi molto diversi fra loro, che assolutamente non possono essere paragonati. Uno è “La strada”, di Cormack McCarthy, l’altro “La scopa del sistema”, di David Foster Wallace. Per farla breve il primo è ambientato in un futuro post bomba nucleare in cui padre e figlio lottano per sopravvivere nella desolazione più completa, il secondo è un romanzo postmodernista senza una trama precisa, ma ricco di contenuti sociali e filosofici da metabolizzare.
Non potevo scegliere nulla di più diverso, me ne rendo conto, ma li ho paragonati perché mi hanno fatta riflettere su una questione puramente stilistica.

McCarthy è conosciuto per la sua prosa secca, senza fronzoli. Non ho letto altri libri dell’autore, ma facendo qualche ricerca ho scoperto che è un suo tratto distintivo.  DFW invece ha scelto per il suo primo romanzo (una prova incredibile, se si pensa che aveva solo ventiquattro anni) un tono verboso e molto complesso. Dati la trama e l’intento dei due libri non mi stupiscono le scelte degli autori, sono entrambe azzeccate e rispecchiano ciò che vogliono narrare e trasmettere.
Mi sono quindi domandata se la scelta dello stile dipende dal romanzo o dall’autore.
I libri che sto confrontando avrebbero avuto lo stesso impatto se, ad esempio, la prosa di McCarthy fosse stata più fluida? O se la Wallace avesse preferito un tono più leggero, che ammiccava anche al lettore occasionale, per la sua storia? Personalmente credo di no. Avrebbero potuto essere entrambi ottimi libri, ma con molte probabilità avrebbero perso qualcosa, McCarthy un po’ della potenza e l’angoscia che la sua storia trasmette, e Foster Wallace l’intento sociale della propria.
Dopo essermi risposta a queste domande mi sono detta che un autore dovrebbe scegliere il suo stile a seconda delle storie che racconta. Un giallo o un thriller troppo prolisso potrebbe perdere in azione, mentre un fantasy classico verrebbe privato della sua magia se non ci soffermassimo a lungo sulle descrizioni del mondo alternativo creato ad hoc per i lettori.
Sono abbastanza convinta che, nel limite del ragionevole, un ottimo autore è anche capace di flessibilità. Adatta lo stile al romanzo, e non viceversa, per poter esprimere al meglio che vuole, e questo sempre senza perdere i suoi tratti distintivi.

A questo punto ho riflettuto sul mio ‘tipo’ di scrittura e penso proprio di far parte di quella fetta di autori che preferisce lunghe frasi poetiche, di stampo classico.
Mi viene naturale scrivere in quel modo (ogni taglio in revisione è un pezzetto della mia anima che si stacca e fa ‘ciao ciao’), forse perché fatico prima di tutto a leggere una narrazione troppo frammentaria, quindi fatico anche a scriverla. Infatti è stata una faticaccia leggere “La strada”, che pure conta un centinaio di pagine scarse – anche se consiglio caldamente il film con Viggo Mortensen, che già solo perché è Aragorn è il mio eroe – mentre è stato paradossalmente più semplice leggere “La scopa del sistema”, senza una trama o un appiglio narrativo a guidarmi nell’impresa.
Mi sono resa conto che questo tipo di scrittura è quella che più si avvicina alle storie che vorrei scrivere, che aiuta a suscitare ciò che vorrei nel lettore, ossia un lento immergersi in un mondo differente, come quando ci si immerge in vasca per fare un bagno rilassante.
Avete mai trovato una storia molto bella con uno stile che non gli si addiceva? E come preferite scrivere? A piccole frasi secche che vanno dritte al punto e mozzano il fiato, o a lunghi paragrafi che insinuano curiosità?

martedì 4 aprile 2017

I miserabili vol. II – Victor Hugo

Questo volume non mi ha entusiasmata come il primo.
Le tematiche approfondite sono diverse ed è stato più complicato immergersi nella lettura perché non mi interessavano granché. Ho saltato alcune parti, lo ammetto. Inoltre ci sono dei dettagli che non mi hanno convinta.
Ma prima, un piccolo riassunto. Per quanto piccolo io possa riuscire a farlo.


Jean Valjean e Cosette
Avevamo lasciato Jean Valjean a prendersi cura della piccola Cosette. I due trovano rifugio in un convento di clausura, nel quale lavora come giardiniere un uomo cui Jean Valjean aveva salvato la vita ai tempi in cui era sindaco. Questi, non sapendo nulla della vera identità di Jean Valjean come ex forzato, lo aiuta, dicendo al convento che abbisogna di un aiutante e facendo passare Jean Valjean come suo fratello minore.
Cosette e l’uomo trovano protezione nel convento, dove la bambina riceverà un’educazione con la prospettiva di farsi suora una volta cresciuta, inoltre Jean Valjean è sfuggito ancora una volta al poliziotto Javert, il quale però è ormai certo che il detenuto non sia affatto morto come aveva fatto credere.

Marius de Pontmercy è ancora un bambino quando viene affidato al nonno e cresce nella convinzione che il padre non gli voglia bene. In realtà l’uomo soffre molto di questa lontananza ma il nonno di Marius pensa che possa avere una cattiva influenza sul bambino, poiché ha combattuto nelle guerre napoleoniche e non apprezza le sue idee politiche, quindi ha preso accordi perché Marius rimanga lontano da lui.
Alla morte del padre Marius scopre ogni cosa e, da imbarazzato che era della sua figura, ne diviene fiero. Lascia la casa del nonno e il suo orgoglio gli impedisce di accettare qualsiasi aiuto economico. Impara un mestiere, abbandona gli agi e dedica la vita al lavoro, alla cultura e al pensiero filosofico. Il suo sogno è di trovare un certo Thenardier, che nel testamento suo padre aveva descritto come l’uomo che gli aveva salvato la vita. Ignora che la famiglia Thenardier è caduta in disgrazia e abita nella stanza accanto alla sua sotto falso nome per sfuggire ai creditori. Inoltre il giovane si è innamorato di una ragazza che vede sempre al parco ma che non riesce a rintracciare poiché il padre di lei, che lui chiama fra sé e sé signor Leblanc, ha notato l’interesse del giovane e ostacola gli incontri fra i due.
Per curiosità Marius sbircia nella camera accanto alla sua e vede che i Thenardier vivono nella miseria, ma sono anche dei farabutti. Scopre che vogliono vendicarsi del signor Leblanc e la bella figlia di cui è innamorato, sostenendo di riconoscere nell’uomo colui che rapì una bambina che era stata a loro affidata. Marius avverte la polizia e l’ispettore Javert organizza ogni cosa per tendere un agguato ai Thenardier, che erano rimasti d’accordo con Leblanc perché tornasse a casa loro la sera stessa. Dal suo punto di osservazione nascosto Marius scopre che quella famiglia altri non sono che i Thenardier, cui suo padre doveva la vita. Javert fa irruzione nella stanza e arresta tutti quanti, a eccezione di Leblanc, che fugge dalla finestra senza che nessuno lo noti.

Cosette e Marius
Dopo gli anni passati in convento Jean Valjean, che ad ogni fuga impara qualcosa di nuovo, decide che Cosette non merita la clausura ma la vita, così quando la bambina è ormai cresciuta si licenzia e compra diverse case a Parigi. Non vive mai per troppo tempo nella stessa abitazione e conduce una vita che non dà nell’occhio.
Cosette diventa ogni giorno più bella e Jean Valjean ha paura di quando sarà il suo momento per sposarsi, poiché lo lascerà solo. Cerca infatti di impedire in ogni modo che il giovane che li segue e chiede di loro venga a conoscere l’identità di Cosette, tuttavia nota che la ragazza è molto triste da quando non incontra più il giovane durante le loro passeggiate.
Marius viene a sapere l’indirizzo di una delle case di Jean Valjean da Eponine, la figlia dei Thenardier, che è invaghita di lui. Si reca di fronte alla casa diverse volte e osserva senza farsi vedere, lascia una lettera d’amore a Cosette e, una sera in cui Jean Valjean non è in casa, i due innamorati si incontrano.


Temo che il commento vero e proprio sarà più corto del riassunto, che pure ho cercato di stringare il più possibile. Forse non ho il dono della sintesi.
Accennavo al fatto che non ho amato questo volume come il primo e il motivo è presto detto. Ho trovato piuttosto noiose le parti in cui Hugo si dilunga sulla storia e sulla politica, quasi accademiche. Immagino comunque che sia una questione di gusti perché ad esempio ho trovato interessantissima la lunga digressione sul convento di clausura, le parti dedicate ai vari personaggi (i rivoluzionari amici di Marius e i delinquenti alleati di Thenardier), oltre che la descrizione appassionata che l’autore dà dei monelli di Parigi e della città stessa – passione che immagino derivi dal fatto che, nel periodo in cui ha scritto “I miserabili”, Hugo era stato esiliato dalla Francia.
Alla fine del precedente capitolo pensavo di dover abbandonare Jean Valjean, ma sono stata lieta di ritrovarlo all’inizio di questo volume. Affezionarsi a lui è facile perché è profondamente umano. Tenta di essere un buono ma, allo stesso tempo, sfugge alla legge che pure giustamente lo reclama. Mi sono affezionata anche a Marius (che oltre ad essere adorabile per me ha il viso di Eddie Redmayne, quindi lo adoro anche di più), che Hugo descrive come un giovane responsabile, eppure ad un tratto attanagliato dall’amore e dalle passioni, che cominciano a governare la sua vita.

Mi è piaciuto ritrovare un dettaglio che c’era anche in “Notre Dame de Paris”, l’unico altro libro dell’autore che abbia mai letto, nel modo in cui Marius spia i Thenardier, e che sarà cruciale per lo svolgersi della vicenda. Allo stesso modo Claude Frollo aveva spiato la Esmeralda e Phoebus cocente d’invidia, quando i due si incontrano di nascosto.
Un altro parallelismo mi viene in mente. In “Notre Dame de Paris” ci sono molti dettagli lasciati al caso, che potremmo considerare coincidenze, ad esempio il fatto che la pazza rinchiusa nelle segrete sia proprio la madre di Esmeralda, con cui lei parla solo per un caso fortuito, che i bambini scambiati alla nascita siano Esmeralda e Quasimodo, che si rincontrano dopo anni e proprio loro intessono la tela della storia – o quasi. Sono dettagli non cruciali, non indispensabili per la riuscita del romanzo, che tuttavia è bello trovare forse anche proprio per questo motivo.
La coincidenza gioca un ruolo molto più importante in “I miserabili”, tanto da risultare poco credibile. Voglio dire, quante possibilità c’erano che Marius abitasse proprio vicino ai Thenardier, coloro cui doveva fare del bene? E quante possibilità c’erano che si rivolgesse proprio al poliziotto Javert per risolvere il suo problema, con tutti i poliziotti che c’erano a Parigi? E ancora, Jean Valjean è capitato per caso proprio nel convento in cui lavora un uomo che gli deve un favore, e così viene salvato. Insomma, una volta il deus ex machina va bene, ma quante volte vogliamo utilizzarlo?
Penso sia questa la cosa che più mi ha indispettita, trovare così tante coincidenze e così indispensabili per la riuscita della storia. Se uno di questi casi fortuiti non si fosse verificato la trama si sarebbe inceppata, ma non credo sia possibile che ne capitino così tanti a un solo gruppo di personaggi.

Sto sperando nel prossimo e ultimo volume, in realtà nonostante possa sembrare da questo commento che la storia stia perdendo punti ai miei occhi, sono impaziente di conoscere il seguito. Attendo in particolar modo una parte più importante per Eponine e Gavroche il monello, e aspetto di vedere un ultimo confronto tra Javert e Jean Valjean.
Sono giunta alla conclusione che non c’è mai abbastanza Hugo, nel mondo.